domenica 23 febbraio 2014

Tra dire e fare c'è di mezzo il mare (della Cina?)




Marta Tibaldi
Tra dire e fare c’è di mezzo il mare (della Cina?)

Il rapporto che i cinesi hanno con le parole e con i fatti tende a essere diverso da quello degli Italiani.

A Taipei (Taiwan) ho conosciuto una signora che all’epoca del nostro incontro non parlava inglese. Per comprenderci abbiamo avuto bisogno di un’interprete. La nostra conversazione è stata alquanto paradossale: io italiana parlavo inglese, la signora taiwanese parlava mandarino, la mediatrice taiwanese  traduceva in inglese a me italiana il mandarino della signora taiwanese. In quell’occasione ho pensato che ciò che ci dicevamo probabilmente non fosse del tutto corrispondente a ciò che volevamo dire, ma malgrado la babele linguistica ci siamo comprese e quella strana conversazione ha prodotto sorprendenti effetti trasformativi.

Dopo sei mesi io e la signora taiwanese ci incontriamo di nuovo. Questa volta la signora si presenta da sola e parla in un inglese fluente. Che cosa è successo? Subito dopo il nostro primo incontro si è trasferita in America per imparare l’inglese e ora ha deciso di iniziare la propria formazione analitica.
Tornando in Italia il contrasto tra il fare della signora taiwanese e il parlare degli italiani mi balza agli occhi. L’impressione che ne traggo è che da noi ci sia una tendenza alla superfetazione linguistica e che tra il nostro “dire” e il “fare” cinese ci sia, come recita il proverbio, “un mare”.

Nella psicologia del profondo l’immagine del mare è associata a ciò che è inconscio ed è simbolo di potenzialità ma anche di incertezza e di indecisione: “Tutto nasce dal mare e tutto vi ritorna: luogo delle nascite, delle trasformazioni e delle rinascite; acqua in continuo movimento, il mare rappresenta simbolicamente uno stato transitorio fra le possibilità ancora da realizzare e le realtà già realizzate, una situazione di ambivalenza che è quella dell’incertezza, del dubbio, dell’indecisione e che può concludersi bene o male” (J. Chevalier, A. Gheerbrandt, Dizionario dei simboli, vol. 2, Bur, Milano 1987, p. 67).
“Il mare” del proverbio italiano potrebbe rimandare dunque alle potenzialità inconsce che sono presenti nelle situazioni non ancora definite, ma nello stesso tempo anche all’incertezza  a cui quelle situazioni sono associate. Se in Oriente si tende a rispondere al “mare” inconscio in modo operativo e fattuale, in Italia sembrano essere privilegiate le parole, a volte anche a detrimento dell’azione.

Nel 1928 durante il proprio esperimento di confronto con l’inconscio, Jung dipinse il mandala con il castello giallo, un dipinto che a suo dire aveva “qualcosa di cinese” (Liber Novus, immagine 163). Subito dopo, il sinologo Richard Wilhelm inviò a Jung Il segreto del fiore d’oro, un antico testo sapienziale cinese, chiedendogli di commentarlo. Jung fu molto colpito dal parallelismo tra il percorso di conoscenza descritto nel testo cinese e il confronto con l’inconscio di cui egli stesso era testimone attraverso le proprie immagini e fantasie. In quell’occasione Jung scrisse a Wilhelm: “Il destino sembra averci assegnato il ruolo di due pilastri che reggono il ponte tra Oriente e Occidente” (S.Shamdasani, Liber Novus. Il "Libro Rosso" di C.G. Jung, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 218).
L’incontro di Jung con la cultura cinese rappresentò un vero e proprio punto di svolta nella vita e nell’opera del padre della psicologia analitica.  Se fino ad allora Jung si era confrontato con l’inconscio soprattutto in termini interni, a seguito dell’incontro con la cultura cinese, egli decise di descrivere il processo di individuazione – ovvero il processo psicologico che tende alla realizzazione dell’intera personalità - attraverso la psicologia comparata, parlandone in termini indiretti. Jung si rese conto che in questo processo, in qualunque modo esso avvenga,  è fondamentale che la coscienza si differenzi dai contenuti inconsci, prenda posizione nei loro confronti e si assuma la responsabilità della scelta: “Alla resa dei conti – scrive Jung nella propria autobiografia - il fattore decisivo è sempre la coscienza, che è capace di intendere le manifestazioni dell’inconscio  e prendere posizione difronte ad esse” (C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung, Rizzoli, Milano 1961,  p. 230).

Attraverso la sua esperienza e la sua storia Jung ha dimostrato che “dire” e “fare” sono due possibili risposte al “mare” delle potenzialità inconsce. Ciò che fa la differenza è la scelta responsabile e l’assunzione di responsabilità nei confronti dell’una o dell’altra modalità, affinché il “dire” non sia un parlare sterile e l’azione non sia un “agito” (acting out), privo di riflessione critica.  

La psicologia comparata rende maggiormente consapevoli delle caratteristiche della cultura di appartenenza, dà visibilità ai diversi stili di conoscenza e di significato (cfr. F. Jullien, L’ansa e l’accesso. Strategie del senso in Cina. Grecia, Mimesis Edizioni, Udine 2011), fa decidere più responsabilmente tra “dire” e “fare”, tenendo conto anche del “mare”.
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(foto di Marta Tibaldi)





venerdì 14 febbraio 2014

Marta Tibaldi "Un'esperienza junghiana in Cina. Fare analisi a Hong Kong" - Roma, mercoledì 19 febbraio 2014 ore 21,00



(foto di Marta Tibaldi)


Marta Tibaldi

Un'esperienza junghiana in Cina. Fare analisi a Hong Kong

Associazione Italiana di Psicologia Analitica - Via Antonio Musa, 15 - Roma
mercoledì 19 febbraio 2014 ore 21,00

La pratica analitica con i pazienti cinesi rappresenta  per l'analista junghiano occidentale una sfida da molti punti di vista. Essa richiede, tra l'altro, di svuotare la mente da preconcetti e pregiudizi e avvicinare la cultura cinese in modo culturalmente sensibile, modificando, ove necessario, gli strumenti analitici occidentali.
Nella conferenza Marta Tibaldi rifletterà, in particolare, sulle immagini inconsce del "cinese" e dell' "occidentale " interni; sull'uso dell'inglese quale lingua di lavoro e lingua-ponte tra la cultura occidentale e quella orientale; sull'intrecciarsi delle dimensioni archetipiche e individuali nei pazienti cinesi e la necessità di trovare parole transculturali per raccontare le loro storie.


giovedì 13 febbraio 2014

Jung, Asia and Interculture - International Conference Taipei (Taiwan), 10/17-10/20, 2013





                                                      








The first-ever International Conference on C.G. Jung in Taipei, Taiwan

sponsored and organized by

International Association for Analytical Psychology (IAAP)
Taiwan Institute of Psychotherapy (TIP)
Taiwan Jung Developing Group
Taiwan National Central Library
Trend Educational Foundation

                      


lunedì 10 febbraio 2014

Superstizione o pensiero correlativo?

(foto di Marta Tibaldi)


Marta Tibaldi

Superstizione o pensiero correlativo?


In un articolo recentemente apparso su La Repubblica, Giampaolo Visetti titola Cina. Indovini, maghi e chiromanti. Pechino vieta pure la scaramanzia. L’articolo si riferisce alla “dichiarazione di guerra” del presidente cinese Xi Jinping “agli indovini di strada, anche riveriti maestri del Feng Shui, le sale dei chiromanti, gli editori specializzati in manuali profetici, i botti anti-demoni della festa di primavera e perfino i costruttori più sensibili ai numeri del malaugurio, rei di saltare i piani aborriti dai clienti. “Ciarlatani” ha tuonato Xi Jinping, e Pechino ha ri-annusato quel certo profumo della repressione maoista” (La Repubblica, 5 febbraio 2014, p. 31)

Non è la prima volta che, leggendo articoli italiani sulla Cina, noto quanto il nostro modo di osservare e di descrivere una realtà così diversa come quella cinese rischi di essere (inconsapevolmente?) fuorviante. Tendiamo a misurare e a raccontare gli usi e i costumi cinesi - anche il loro procedere per discontinuità storiche – in modo etnocentrico e con il rischio di attribuire significati culturalmente inesatti.

Tornando all’articolo di Visetti, la domanda potrebbe essere questa: le pratiche cinesi sono superstizione? Quando i cinesi non si tagliano i capelli nel primo mese dopo il nuovo anno lunare per non buttare via la buona sorte, o quando evitano il numero quattro perché il carattere con cui è scritto questo numero è uguale a quello della morte, seppure con un accento diverso, o quando i cinesi scacciano gli spiriti maligni con i fuochi d’artificio, il loro comportamento è davvero superstizione? E’ corretto usare la parola “superstizione” per definire le pratiche del popolo cinese e il pensiero che le sussume?

Il vocabolario italiano definisce superstizione “una credenza determinata dall’ignoranza e dalla suggestione per cui si tende ad attribuire a cause occulte o soprannaturali avvenimenti che possono essere spiegati con cause naturali”: possiamo davvero considerare le pratiche cinesi espressione di ignoranza e di superstizione? O piuttosto potremmo considerarle espressione di un pensiero che “ definisce ogni fenomeno, ogni punto nello spazio, in relazione a sistemi di riferimento” ?(A. Andreini, M. Scaparro, Il daoismo. L’espressione più autentica del sentimento religioso cinese, Il Mulino, Bologna 2007, p. 30)

Una prima riflessione apparentemente banale è questa: il pensiero cinese è diverso da quello occidentale. Mentre il nostro è un pensiero logico-lineare e subordinativo , quello cinese è “correlativo” (cfr. M. Granet, H. Wilhelm, W. Eberhard, S. Jablonsky). E’ un pensiero che “mette insieme”, domini diversi tra loro e in continua interazione reciproca come il mondo umano e il cosmo, le pratiche rituali e l’ordine dell’universo. In questo senso il pensiero cinese ha sempre due facce, una visibile e una invisibile. Le pratiche culturali cinesi rimandano a un altro ordine di significato, anche se inconsapevole, e attraverso di esso trovano la propria spiegazione. Quando l’aspetto visibile è privato del suo rimando invisibile, il primo può essere erroneamente letto come superstizione.

In Occidente il modo di pensare cinese può essere paragonato al pensiero simbolico teorizzato da Carl Gustav Jung (1875-1961). Per Jung “il simbolo […] presuppone sempre che l’espressione scelta sia la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria” (C.G. Jung, Opere, vol. 6, pp. 483-484). Il pensiero simbolico è dunque un pensiero consapevole delle due facce che lo sostanziano e sta a indicare che esso significa più di quanto non dica. Secondo Jung il simbolo è una sfida perpetua ai nostri pensieri e ai nostri sentimenti e questo spiega perché il lavoro simbolico faccia così tanta presa su di noi e sia così stimolante.

La pratica analitica junghiana è un grande esercizio simbolico per riuscire a “guardare [ e a vedere] in trasparenza” (J. Hillman) ciò che è invisibile, ovvero inconscio. Il simbolo, come la sua stessa etimologia suggerisce (dal tema del verbo symbàllo, metto insieme, conchiudo, composto da syn, con, insieme e bàllo, getto e in composizione pongo, metto), unisce domini diversi e attraverso la propria doppia natura rende visibile la realtà psichica inconscia, che sempre e comunque sottende il pensiero conscio.

 La somiglianza tra il modo di pensare correlativo dei cinesi e il pensiero simbolico junghiano colpisce gli analisti del profondo che lavorano con pazienti o studenti dell’Est asiatico. La rete di connessioni e di significati simbolici si intreccia costantemente in ciò che i Cinesi fanno e sono, rimandando l’uno all’altro all’interno di un ricchissimo universo correlativo. Possiamo non condividere questo modo di pensare, ma certamente non possiamo banalizzare una cultura millenaria così piena di rimandi simbolici etichettandola con definizioni improprie.
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domenica 2 febbraio 2014

La Cina Arcaica. Early China – Roma, Palazzo Venezia (giugno 2013-marzo 2014)


(foto di Marta Tibaldi)

Marta Tibaldi
La Cina Arcaica. Early China – Roma, Palazzo Venezia (giugno 2013-marzo 2014)
Chi sono i Cinesi e che storia hanno? Per chi si è posto almeno una volta questa domanda, la mostra La Cina Arcaica. Prima mostra della Civiltà Cinese (3500 a.C. - 221 a.C.), allestita nelle sale del Museo di Palazzo Venezia a Roma, può dare una prima affascinante risposta.

Cinque sale con 150 manufatti provenienti dalle province cinesi di Shanxi, Shandong, Hubei e Sichuan che illustrano il lungo periodo storico che va dal 3500 a.C. al 221 a.C e raccontano la nascita della civiltà cinese, l'“avvento del regno”, i sacrifici rituali, la musica cerimoniale e gli Stati Guerrieri fino l’unificazione del paese sotto l’imperatore Qin.  


I primi manufatti provengono dal sito archeologico di Taosi, nella provincia di Shanxi: ceramiche colorate e monili di giada sapientemente intarsiati cui seguono maschere, teste di bronzo e oggetti in legno colorato ritrovati nel sito di Sanxingdui; di grandissimo interesse i grandi Banzhong, le campane polifoniche di bronzo suonate nelle cerimonie rituali dell’epoca degli Stati Guerrieri e  mai esposte prima d’ora in Italia (vedi foto). Seguono le testimonianze del periodo in cui si  sviluppa e si afferma il pensiero filosofico di Confucio (551 a.C. – 479 a.C.) subito prima dell’unificazione sotto l’imperatore Qin  nel 221 a.C. A questo proposito si narra che il nome Cina 中国 derivi da questo imperatore, che  dopo avere unificato i Sette Stati Combattenti li chiamò Stato di Qin.  


La Cina Arcaica è la prima delle cinque mostre che il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo italiano prevede di organizzare insieme all’Amministrazione Statale per i Beni culturali della Repubblica Popolare Cinese nello spazio museale di Palazzo Venezia a Roma.


Il crescente interesse per gli scambi culturali tra Italia e Cina è testimoniato da un particolare significativo della mostra: la scelta di porre all’ingresso del percorso museale la scultura bronzea “Conversazione immaginaria tra Leonardo da Vinci e il grande pittore cinese Qi Baishi” (2012) dell’artista cinese Wu Weishan   為山 . L’opera, che rende omaggio a due grandi maestri dell’Occidente e dell’Oriente, è stata donata dallo scultore al  Museo di Palazzo Venezia dopo l’allestimento nel 2012 della sua personale “Scolpire l’anima di una nazione”.

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