venerdì 31 gennaio 2014

Il "matrimonio ambulante" e il pensiero transculturale



Marta Tibaldi
l “matrimonio ambulante” e il pensiero transculturale
Ricardo Coler, medico, scrittore e fotografo argentino, nel 2013 ha pubblicato un reportage sui Mosuo, una popolazione asiatica che vive sulle sponde del Lago Lugu nella provincia cinese dello Yunnan.
I Mosuo sono una delle ultime culture matriarcali al mondo e Coler si è spinto fino in Cina per osservare e documentare la vita e le caratteristiche di una comunità che segue regole completamente diverse da quelle occidentali e patriarcali.

Leggendo Il regno delle donne – questo il titolo del suo reportage – mi ha colpito il nome con cui le donne Mosuo definiscono il matrimonio: axia, ovvero “matrimonio ambulante”.


Il “matrimonio ambulante” somiglia ben poco al matrimonio occidentale: “Ognuno vive a casa propria, e di notte l’uomo va a trovare nella sua camera la donna con cui ha fissato un appuntamento. La parola xia significa “amanti”, e il prefisso a sta a indicare intimità” (p. 29). Questo tipo di relazioni tra donne e uomini Mosuo non comporta alcun vincolo: “La visita dura quanto la notte e non implica che ci si debba vedere di nuovo. […] Sia gli abitanti di altri villaggi, sia i forestieri possono avere un axia con le donne Mosuo, che però non esitano a lasciare fuori dalla porta chi si mostri poco gentile o si esprima in termini scurrili.” (pp. 29-30).
Nelle famiglie Mosuo, che ruotano esclusivamente intorno alle madri e alle nonne, non esiste “l’idea dell’uomo o della donna ideali, la fantasia che tra i rappresentanti dell’altro sesso ci sia qualcuno che è la nostra esatta metà, e che ci voglia un po’ di buona volontà per incontrarlo”. Questa è una caratteristica della cultura occidentale e, aggiunge Coer, “un’incomparabile materia prima per la fabbrica dell’insoddisfazione. […] Le Mosuo professano la saggezza di quel che non c’è, di ciò che non si può avere, una saggezza che le preserva da quelle illusioni che, restando disattese, le lascerebbero deluse, con il rischio di trasformare in costanti passeggere del treno della lagnanza. E’ come se non sperassero di trovare, in un uomo, niente di diverso da ciò che trovano” (pp. 174-175).


Leggendo il libro di Coer non ho potuto fare a meno di pensare alla differenza che intercorre tra il “matrimonio ambulante” delle donne Mosuo e, ad esempio, quello cattolico, con le sue caratteristiche di fedeltà e di indissolubilità. Ho pensato anche al matrimonio descritto dallo psicoanalista junghiano Adolf Guggenbuhl-Craig in Matrimonio. Vivi o morti, Moretti & Vitali, Bergamo 2000.
Percorrendo una strada opposta a quella che considera il matrimonio meta della felicità, Guggenbuhl-Craig  sostiene che “Il matrimonio [è] un itinerario di sviluppo e di trasformazione dell’intera personalità, anche perché obbliga uomo e donna al confronto con gli aspetti più oscuri, sgradevoli e difficili dell’incontro e dell’amore, e con i molteplici aspetti “normali” e “anormali” della sessualità”.

Secondo quest’autore il matrimonio può essere guardato dal punto di vista del processo d’individuazione, ovvero della possibilità di sviluppare l’intera personalità. In questo senso per chi voglia e sappia addentrarsi nell’oscurità dei suoi tormenti e delle sue contraddizioni, il "matrimonio individuativo" è un percorso che può celare inattese potenzialità trasformative, avviando verso la conquista di un senso più profondo di sé e dell’esistenza.
Il “matrimonio ambulante” delle donne Mosuo, il matrimonio cattolico, il matrimonio individuativo: tre realtà antropologiche e culturali diversissime tra loro che, come è facile comprendere, stimolano alla complessità, dando origine a quel bene prezioso che è il pensiero transculturale.
Copyright 2014

(Ringrazio Elisabetta Ambrosi per avermi segnalato il libro di Ricardo Coler, Il regno delle donne, Nottetempo, Roma 2013).

Marta Tibaldi, Profilo professionale e pubblicazioni

Le parole che curano: il potere archetipico del linguaggio - di Marta Tibaldi




Marta Tibaldi
Le parole che curano: il potere archetipico del linguaggio 


Roma, settembre 2001 [1] 

Caro Dottor Hillman, non “Caro James”, per carità!, infatti anche se avessi con lei un rapporto di amicizia e di familiarità non rinuncerei a scriverle con la forma di cortesia, per segnalarle il rispetto che provo per un 'grande' della psicologia analitica, quale lei è. Il rispetto, ma anche l'ammirazione per l'originalità e per la 'divergenza' del suo pensiero, è ciò che sento e che mi lega a lei: allo James Hillman reale, quello che ho conosciuto a Sant'Andrea in Percussina in occasione dei seminari di Anima, e all'immagine di James Hillman, quella che si è costruita nella mia mente nel corso del tempo, piuttosto lentamente direi, attraverso la lettura dei suoi scritti e l'efficacia delle sue parole. James Hillman reale, dunque, e James Hillman come immagine interna; in entrambi i casi una figura das wirkt, come direbbe Jung, “che agisce” nella mente, dando, almeno per quel che mi riguarda, piacere all'Io e benessere all‟anima.
Per questi motivi l'occasione che ho di scriverle rappresenta per me a pleasure and a privilege, come si direbbe nella sua lingua. Un piacere e un privilegio di cui non posso che esserle grata. Quando mi è stato chiesto di partecipare, anche con la mia lettera, al tentativo di “saggiare criticamente […] i vari aspetti considerati rilevanti dell'opera hillmaniana”, ho pensato: le immagini, le immaginazioni attive, le parole, ecco i luoghi del mio incontro con Hillman. In realtà in questa lettera mi soffermerò soltanto sulle parole; sulla capacità, tutta e tipicamente umana, di comunicare verbalmente, su quel “miracolo di trovare le parole giuste, le parole che comunicano l'anima in modo accurato, dove si intrecciano pensiero, immagine e sentimento [...] ciò che nell'essere umano rappresenta la più complessa impresa psichica che si possa immaginare." (J. Hillman, Re-visione della psicologia (1975), Adelphi, Milano 1993, p. 363).

Avevo iniziato questa lettera prima dei fatti di New York e riprendo a scriverle oggi, pochi giorni dopo la notizia della tragedia che ha sconvolto l'America e che ha trasformato il mondo. Siamo stati testimoni di un evento storico dopo il quale, come molti hanno osservato, tutto è cambiato. Mi accingo dunque a scriverle in un momento in cui nulla è come prima, neanche le parole. In questa lettera avrei voluto scrivere, tra l'altro, su quello che lei definisce “l'aspetto angelico delle parole”: “Le parole, come gli angeli, sono potenze che esercitano su di noi un potere invisibile. Sono presenze personali dotate di intere mitologie: generi, genealogie (etimologie concernenti le origini e le creazioni), storie e voghe; e hanno inoltre specifici effetti protettivi, blasfemi, creativi e annientanti. Poiché le parole sono persone” (Ibid., p. 43); avrei voluto scrivere sulla necessità di 'curare' il nostro linguaggio, ritrovando l'anima delle parole e trasformando nuovamente i concetti in metafore perché, come lei afferma, “La 'cura con le parole' di Freud è anche la cura del nostro parlare, un cimentarsi con il più difficile dei compiti culturali, la rettificazione del linguaggio: la parola giusta” (Ibid, p. 52); avrei voluto scrivere infine su ciò che lei definisce, con un'espressione toccante, il “coraggio di essere eloquenti”. Avrei voluto scriverle tutto questo, ma gli avvenimenti di New York mi spingono a riflettere sull'esperienza che in questi giorni stiamo facendo delle parole. La carica emotiva che si è sprigionata dal crollo delle torri sembra scuotere dalle fondamenta il nostro modo di parlare e di percepire le parole, che riacquistano corpo, forza e autonomia. Mai come in questo momento possiamo prendere coscienza dell'oscurità in cui abbiamo segregato questi ambasciatori dell'inconscio, ai quali abbiamo negato la funzione e la dignità di mediatori psichici. Negando alle parole libertà e autonomia abbiamo privato questi "portatori d'anima" del ruolo di intermediari; letteralizzandone il significato abbiamo impedito all'anima di "saltare fuori dalle frasi" con le sue immagini e le sue storie; riversando su di loro il nostro pregiudizio le abbiamo costrette al silenzio o a parlare nell'unico modo che conoscevamo, il nostro. Abbiamo dimenticato così che le parole giungono a noi come ospiti, nei confronti dei quali abbiamo doveri di ospitalità. Le parole che si offrivano a noi infiammando i sensi e accendendo le menti, queste parole non hanno più parlato. Da quando abbiamo gettato nell'ombra la loro potenza e il loro fascino, esse hanno taciuto e noi siamo orfani delle loro immagini e delle loro storie.

Le parole sono meri strumenti dell'Io, un flatus voci – sosteneva il nominalista Roscellino. Le parole sono nomi, non hanno realtà oggettiva. Abbiamo dimenticato così che gli universali, gli invisibili, gli archetipi – o in qualunque altro modo vogliamo definire ciò che è eccentrico rispetto all'Io – vivono di vita autonoma, che precede l'Io e ne eccede il significato. Abbiamo usato le parole senza rispetto e senza consapevolezza; non ne abbiamo avuto cura, non ce ne siamo sentiti responsabili. Ma, come avviene nella stanza d'analisi, oggi siamo obbligati a riflettere su ciò che diciamo e sul modo in cui lo diciamo, un po' più consapevoli, forse, che la potenza delle parole “trascende la loro definizioni e i loro contesti nominalistici ed evoca nelle nostre anime una risonanza universale”(Ibid, p. 43; cfr. anche M. Tibaldi, L'Ombra delle parole, in Anima Mundi, n. 2/2001.).
A un mese di distanza le mie parole sono oggi molto diverse da quelle di ieri; la carica emotiva degli avvenimenti di New York si è in parte placata, la mente non è confusa come allora, anche se i sentimenti sono molto diversi da quelli iniziali. Nello scrivere questa lettera avrei potuto distanziarmi da quanto accaduto in America, ma ho deciso di non farlo. Che l'anima possa vivere drammaticamente l'impossibilità di dire i propri turbamenti o le proprie gioie in forma verbale lo testimoniano in modo esemplare le parole di una paziente, che in seduta afferma: “Le mie parole sono prigioniere; spingono, premono per venire allo scoperto, ma un diaframma impedisce loro di uscire”. Il suo corpo comunica l'angoscia di non sapersi dare in forma verbale; la paziente vive quella che lei suggestivamente definisce l' “angoscia semantica”: “Quanto più ci sottraiamo al rischio di parlare per l'angoscia semantica che tiene l'anima segregata nel silenzio, privata e personale tanto più si allarga lo iato tra ciò che siamo e ciò che diciamo, la scissione tra psiche e logos” (J. Hillman, Re-visione della psicologia, cit., p. 364). E' proprio sulla parola psicologica, che coniuga insieme pensiero, immagine e sentimento, sulla parola d'anima che comunica le immagini dell‟inconscio individuale e collettivo, che vorrei formulare una riflessione teorica e una considerazione clinica.

Sappiamo quanto in ambito junghiano esista, soprattutto in Italia, una certa e paradossale diffidenza nei confronti della cosiddetta psicologia archetipica, che lei autorevolmente rappresenta (J. Hillman, Psicologia archetipica in L'Immaginale,1987; F. Donfrancesco, Perché psicologia "archetipale", Appendice a J. Hillman, Oltre l'umanesimo, Moretti & Vitali, Bergamo 1996). Tale diffidenza è in parte riconducibile alla presa di distanza dalla nozione di archetipo espressa da Mario Trevi nel suo tentativo di revisione critica dello junghismo (M. Trevi, Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano1987). Come è noto, anche in ambito internazionale il concetto di archetipo è stato oggetto di discussioni e ampliamenti in direzione sia di un suo maggiore radicamento sia nella sfera mitologico-immaginale, sia in quella biologica. Nella prima direzione si colloca la sua opera, che radicalizza il significato mitologico dell'archetipo e propone un modello della psiche il cui soggetto principale sia “l'anima”, la base poetica della mente che interconnette gli eventi in modo immaginale (J. Hillman, Anima. Anatomia di una nozione personificata, Adelphi, Milano 1989); nella seconda si colloca il contributo di Anthony Stevens, che in Archetypes: a Natural History of the Self (1982) e nel più recente The Two Million-Year-Old Self (1993) offre un supporto empirico all'ipotesi dell'esistenza degli archetipi, individuandone la base biologica e assimilandoli al concetto di struttura etologica ereditaria propria della moderna biologia. Ciò che colpisce è quanto in ambiti culturali diversi da quello della psicologia analitica, a differenza del pregiudizio che serpeggia a volte tra gli junghiani a proposito della psicologia archetipica, la validità euristica della nozione di archetipo sia pienamente accolta, riconosciuta e utilizzata; si pensi, ad esempio, alla cosiddetta “critica archetipica”, che in letteratura costituisce uno dei quattro più rilevanti orientamenti per studiare e valutare un'opera letteraria; ispirandosi alle teorizzazioni junghiane e agli studi antropologici di James Frazer, la critica archetipica dedica particolare attenzione proprio a quei motivi (archetipi) che nel testo letterario danno forma in modo costante e ricorrente a aspetti fondamentali dell'esistenza (cfr. M. Tibaldi, Critica archetipica, in Le nuove Effemeridi, 2001). Se in ambito letterario la critica archetipica ha accolto e valorizzato soprattutto il versante mitopoietico dell'archetipo, è interessante notare come nell'ambito della ricerca empirica sul processo psicoanalitico, in quello delle neuroscienze, della psichiatria evoluzionistica e della neuropsicologia cognitiva sia stato invece valorizzato il versante biologico della psiche conscia e inconscia, con risultati sperimentali che tendono a confermare, seppure indirettamente e in modo implicito, le intuizioni junghiane sul funzionamento della psiche e l'ipotesi archetipica che sistemi funzionali a base innata, selezionati dall'evoluzione, intervengano nel motivare il comportamento umano: si pensi, ad esempio, ai sistemi motivazionali di Joseph D. Lichtenberg (Psicoanalisi e sistemi motivazionali, Cortina, Milano 1995) al “darwinismo neuronale” e alla “coscienza di ordine superiore” di Gerald M. Edelmann (Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection, Basic Books, New York 1987; Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 2000); alle ricerche di Antonio R. Damasio (L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995; Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000) sulla “coscienza nucleare” e sulla “coscienza estesa”; all'attività referenziale della mente e alla “Teoria del codice multiplo” di Wilma Bucci (Psychoanalysis and Cognitive Science: a Multiple Code Theory, Guilford, New York 1997), ecc. Sebbene in questi studi Jung e i suoi scritti non vengano citati e malgrado siano diversissimi l'impianto metodologico, il registro linguistico e le metafore con cui sono descritti i processi psichici, al lettore attento non sfugge l'affinità tra queste descrizioni e quelle della psicologia analitica. E' da notare inoltre la tendenza di questi studi a convergere verso una teoria complessa della mente: una teoria della mente e del cervello, della coscienza e della cultura, nella quale le mente come la cultura sono frutto del cervello, ma nella quale la cultura come la mente hanno la capacità di retroagire sulle strutture cerebrali, modificandole (A. Oliverio, Biologia e filosofia della mente Laterza, Bari 1995); per dirla in termini junghiani, un modello della psiche nel quale l'archetipo rappresenti "uno spettro che va dal polo 'infrarosso', fisiologico, istintuale al polo 'ultravioletto', spirituale o immaginistico. L'archetipo abbraccia ambedue i poli e può essere sperimentato e compreso attraverso l'uno o l'altro. Gli approcci biologici o etologici all'inconscio si possono caratterizzare come 'infrarossi'; gli approcci mitologici o immaginali come 'ultravioletti' " (A. Samuels, B. Short, F. Plaut, Dizionario di psicologia analitica, Cortina, Milano 1987, p. 72).

E' proprio tenendo conto di tali convergenze teoriche che vorrei estendere anche agli psicologi analisti l'invito che Giovanni Liotti ha recentemente rivolto ai terapeuti cognitivisti, agli psicoanalisti e ai terapeuti della famiglia; quello di riflettere sulla possibilità di edificare una disciplina psicologica e psicopatologica unitaria, fondata sulla riflessione teoria, l'osservazione clinica e la ricerca empirica: “Lo Spirito del Tempo, lo Zeitgeist, ha suscitato, nell'ultimo quarto del secolo appena trascorso, il rapido sviluppo di due campi del pensiero capaci di influenzare profondamente il nostro modo di studiare la psicopatologia e la psicoterapia. […] Forse non è azzardato immaginare che lo Zeitgeist stia suggerendo una base per l'edificazione di una disciplina unitaria, solidamente fondata anche sulla ricerca empirica oltre che sulla riflessione teorica e l'osservazione clinica. In futuro potremo chiamarla 'psicoterapia', senza aggettivi" (G. Liotti, Le opere della coscienza. Psicologia e psicoterapia nella prospettiva cognitivo-evoluzionista, Cortina, Milano 2001). Sono convinta che in un eventuale progetto di riflessione comune il confronto con la singolare capacità dei cosiddetti 'analisti archetipici' di avvicinare immaginalmente il linguaggio psicologico potrebbe rappresentare un contributo fondamentale. L'approccio archetipico alle parole, ovvero una linguistica dell'immaginazione che reimmagini il linguaggio psicologico e curi con parole d'anima il nominalismo della psicologia e della psicopatologia, potrebbe aiutare a divenire più consapevoli del ruolo che le parole svolgono nella psicoterapia: "Nella prassi analitica i complessi psichici del paziente sono trattati con la cura delle parole (talking cure). Tuttavia non soltanto il paziente non è consapevole del ruolo che il linguaggio svolge nella sua personalità, ma anche lo stesso terapista spesso non è consapevole dei sottili effetti che le sue parole hanno sul paziente" (P. Kugler, The Alchemy of Discourse. An Archetypal Approach to Language, Associated University Press, New York 1982, p. 5; la traudzione è mia). Dal punto di vista evolutivo la competenza linguistica è la più evoluta di tutte le facoltà umana ed è senza dubbio, come lei scrive, la più complessa impresa psichica che si possa immaginare; attraverso il recupero clinico della padronanza affettiva, immaginale e cognitiva di questo peculiare strumento umano si può giungere a sviluppare quella che lei definisce "la narrativa che cura", ovvero "la capacità della psicoterapia di guarire, la sua capacità di continuare a ri-raccontarsi in rinnovate letture immaginative delle sue stesse storie” (J. Hillman, Le storie che curano, Cortina, Milano 1984, p. V). Per questi motivi voglio concludere la mia lettera ricordando alcune sue affermazioni a proposito del linguaggio d'anima e l'invito a ritrovare nell'eloquenza, nell'arte di comunicare verbalmente l'essenza del pensiero e delle emozioni, la singolare capacità, tutta e soltanto umana, di "fare anima" con le parole:

"Tutte le moderne terapie che affermano che l'azione cura meglio delle parole (Moreno) e che sono alla ricerca di tecniche diverse dalle parole (invece che di tecniche da aggiungere alle parole) reprimono la più umana di tutte le facoltà: raccontare le storie della nostra anima. Queste terapie sono forse efficaci sul bambino che è in noi, che non ha ancora imparato a parlare, o sull'animale, che non può farlo, o magari su uno spirito-daimon, al di là delle parole perché al di là dell'anima. Ma solo uno sforzo continuo di parlare un linguaggio d'anima accurato può curare il nostro linguaggio delle sue vuote chiacchiere e restituirlo alla sua funzione prima, la comunicazione dell‟anima. […] Più diffidiamo della parola in terapia o della capacità della parola di esser terapeutica, maggiore è il nostro rischio di venire assorbiti nella fantasia del subumano archetipico, e più vicino è l'ingresso imperioso del barbaro archetipico tra le rovine del sistema comunicativo d'una cultura che ha rifiutato l'eloquenza come specchio della propria anima" (J. Hillman, Re-visione della psicologia, cit.,  p. 364).

Ringraziandola ancora per il piacere e il privilegio di averle potuto scrivere questa lettera, la saluto cordialmente.
Marta Tibaldi

[1] Ho iniziato a scrivere questa lettera prima degli avvenimenti di New York e l‟ho conclusa un mese dopo. Il contenuto e lo stile risentono degli echi di tale frattura. Ho scelto di non modificare la disomogeneità emotiva e stilistica della lettera per rispetto e memoria di quanto accaduto.


Bibliografia

BUCCI, W. (1997), Psychoanalysis and cognitive science: A Multiple Code Theory, New York – London, The Guilford Press 1997;
DAMASIO, A.R. (1994), L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995;
DAMASIO, A.R. (1999), Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000;
DONFRANCESCO, F. (1996), Perché psicologia 'archetipale, Appendice a HILLMAN J., Oltre l’umanismo, Moretti & Vitali, Bergamo;
EDELMANN, G.M. (1987), Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection, Basic Books, New York 1987;
EDELMANN, G.M. (1992), Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993;
HILLMAN, J. (1975), Re-visione della psicologia, trad. it. Adelphi, Milano 1984;
HILLMAN, J. (1983), Le storie che curano, Cortina, Milano 1984;
HILLMAN, J. (1987), Psicologia archetipica, in L’immaginale, 1987;
HILLMAN, J. (1985), Anima. Anatomia di una nozione personificata, Adelphi, Milano 1989;
KUGLER, P. (1982), The Alchemy of Discourse. An Archetypal Approach to Language, Associated University Press, Inc., New York 1982;
LICHTENBERG, J. (1989), Psicoanalisi e sistemi motivazionali, trad. it. Cortina, Milano 1995;
LIOTTI, G. (2001), Le opere della coscienza. Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva cognitivo-evoluzionista, Cortina, Milano 2001;
OLIVERIO, A. (1995), Biologia e filosofia della mente, Laterza, Bari 1995;
POPPER, K.R., ECCLES, J.C. (1977), L’io e il suo cervello, Armando, Roma 1978;
SAMUELS, A., SHORTER, B., PLAUT, F. (1986), Dizionario di psicologia analitica, Cortina, Milano 1987;
STEVENS, A. (1982), Archetypes: A Natural History of the Self, Routledge & Kegan Paul, London 1982;
STEVENS, A. (1993), The Two-Million-Year- Old-Self, Texas A & M University Press, College Station 1993;
TIBALDI, M. (2001a), L'Ombra delle parole, in Anima Mundi, ERI, n. 2/2001;
TIBALDI, M. (2001b), Critica archetipica, in Le Nuove Effemeridi;
TREVI, M. (1987), Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano 1987.


Risposta a Marta Tibaldi

Leggere la sua lettera mi ha dato molto piacere perché lei sembra essere orientata in una direzione verso la quale ho teso e nella quale ho desiderato stabilirmi senza mai giungervi: intendo la riforma del linguaggio psicologico.
Sebbene io non condivida il suo desiderio utopico di una disciplina unitaria saldamente fondata sulla ricerca empirica (si tratta veramente di un terreno solido oppure di un mucchio di sabbia sempre in movimento?), poiché il linguaggio ha un aspetto angelico. Infatti esso ha un aspetto sui generis di potere anarchico non-unificante… da qui la poesia (dove non può esserci nessuna disciplina unitaria saldamente fondata).
Ma mettiamo tutto ciò da parte, così che possiamo rivolgerci alla sua osservazione principale, "la linguistica dell'immaginazione". Essa è ciò che di cui abbiamo bisogno per la nostra effettiva pratica terapeutica. È ciò che i sogni ci portano di notte e che gli studi umanistici e le arti impiegano per attivare l'anima. Sono curioso di sapere che cosa permette ai terapeuti, piuttosto che seguire le linee che lei ha indicato nella sua lettera, di aggrapparsi ancora alle astrazioni eccessivamente concettuali, alla pseudoscienza e alla nomenclatura diagnostica.
Fortunatamente, un'apertura per questa linguistica dell‟immaginazione – al fine di studiare i complessi e i caratteri dei nostri pazienti e le loro patologie – è già stata inaugurata nei densi lavori di Gaston Bachelard. Egli ha mostrato l'esistenza di complessi (complesso di Charon, complesso di Ofelia, complesso di Lautréamont ecc.) senza il bisogno d un manuale diagnostico o anche di un paziente… complessi rivelati unicamente dallo stile linguistico.

giovedì 23 gennaio 2014

La vita in trasparenza. Tra immagini esterne e immagini interne, l'impersonalità dell'esistenza - di Marta Tibaldi




Marta Tibaldi
La vita in trasparenza [1]
Tra immagini esterne e immagini interne, l’impersonalità dell’esistenza

Mi tuffo nei miei pensieri,
volo sopra il mondo.
Marc Chagall

            Sono piccola, avrò quattro o cinque anni, è estate e sono con mio fratello in vacanza in una grande casa con il parco. Siamo all’esterno della casa, mio fratello sta giocando con alcune formiche, le prende, le mette in una piccola scatola di cartone a cellette - è la scatola che contiene le palline rosse delle vitamine Minarini, se non sbaglio - le brucia. Guardo ciò che fa con stupore e distanza: è la mia percezione della realtà, da quando ho scoperto traumaticamente il mondo. Sono piccola ma consapevole del mio sguardo in trasparenza: le formiche che stanno morendo davanti a me muoiono sconosciute; nessuno sa chi sono, nessuno, probabilmente, avrà memoria di loro; le formiche muoiono in modo impersonale. Sono consapevole che si può vivere e morire impersonalmente: un livello del nostro vivere non riguarda nessuno, se non la vita stessa; è come di fronte al deserto: la natura vive prima di noi e oltre noi.
            La vita in trasparenza: l’ho imparata dal mondo, l’ho ritrovata in Jung. Imparare a guardare noi stessi e il mondo in modo oggettivo e impersonale, intuendone il mistero: un decentramento nei nostri confronti, quando riconosciamo la dimensione inconscia della mente, un decentramento nei confronti del mondo, quando sviluppiamo lo sguardo in trasparenza.
            Scrive Jung: “La differenza tra me e la maggior parte degli altri uomini è che per me i "muri divisori" sono trasparenti. E' questa la mia caratteristica. Altri ritengono i muri così spessi, che al di là di quelli non vedono nulla, e perciò credono che non vi sia nulla. […] Chi non vede nulla non ha nessuna certezza, e non può pervenire a nessuna conclusione, o non può fidarsi delle sue conclusioni. […] L'uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili, e non solo quelle che accadono nell'ambito di ciò che ci si attende. L'inatteso e l'inaudito appartengono a questo mondo” (RSR, 415s).
            Le immagini esterne e le immagini interne, l’imepersonalità dell’esistenza, la trasparenza del mondo e il mistero: ecco il mio ascolto di Jung, oggi.
***
            Nel film Videocracy - Basta apparire il regista italo-svedese Erik Gandini descrive, con limpida capacità narrativa, il processo che in Italia, a partire dagli anni Settanta, ha reso l’apparire televisivo misura dell’identità personale, del valore sociale, dell’esistenza.
            Nella cultura dell’apparenza, l’identità individuale e collettiva si costruiscono infatti intorno alla visibilità televisiva della nostra immagine, al nostro essere riconosciuti dallo sguardo del telespettatore quali personaggi del piccolo schermo, qualunque sia il ruolo impersonato. A loro volta, i nuovi eroi televisivi riconoscono la propria esistenza e definiscono la propria identità a partire da quel medesimo sguardo, che è ben diverso da quello di cui si fa quotidiana esperienza quando si è televisivamente invisibili e dunque mediaticamente inesistenti.
            L’inesistenza e l’invisibilità dei non-personaggi televisivi investono in modo drammatico anche la loro dimensione corporea, che diventa inconsistente fino alla vera e propria smaterializzazione. Si pensi, ad esempio, alla bassissima percezione che le persone hanno della presenza altrui in situazioni sociali quali luoghi chiusi (autobus, negozi, cinema, centri commerciali etc.) ovvero aperti (strade, traffico cittadino etc.), a meno che la presenza degli altri non diventi fonte di frustrazione o di fastidio: essa stimola allora una risposta emotiva, di solito di natura aggressiva, che, tradotta in parole, potrebbe suonare così: “mi intralci ... mi dai fastidio ... levati di mezzo!”. Mi viene in mente, a questo proposito, l’efficacissima espressione di una giovane paziente, che si rivolgeva alle persone a lei moleste, dicendo: “Sopprimiti!”.
            A proposito della natura cordiale o aggressiva del nostro modo di stare in relazione con gli altri, una vignetta di Ellekappa pubblicata il 22 settembre 2009 sul giornale La Repubblica ne è un divertente esempio: a commento delle divergenze di opinione intercorse tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini e la negazione, da parte del primo, di qualsiasi dissidio con l’altro, la vignetta ne sintetizzava così la storia: “Due uomini parlano tra di loro della disputa Fini - Berlusconi. Il primo rivolto al secondo dice: 'Al termine del faccia a faccia con Fini, pollice alzato di Berlusconi'; il secondo risponde al primo: 'O forse era il medio?'“.
            Per quanto riguarda il contratto sociale che regola i rapporti interpersonali, un tempo le norme di buona educazione prescrivevano di mantenere sempre una distanza di rispetto tra sé e gli altri. Nel caso essa fosse venuta meno per qualsiasi motivo, il bon ton esortava a scusarsi per l’indebita invasione dello spazio altrui, ripristinando così la giusta misura relazionale.
            In un’epoca come la nostra, nella quale ben poco si sa e si ricorda delle norme di buona educazione, è interessante notare come il concetto di distanza di rispetto sia ormai sparito dal bon ton sociale, salvo ritrovarlo, sotto altra forma, in ambiti lontanissimi come, ad esempio, i sempre più richiesti e frequentati corsi di autodifesa personale. Una delle prime regole che viene insegnata è quella di mantenere o di ripristinare sempre la distanza di sicurezza tra noi e gli altri; una maggiore vicinanza è consentita soltanto a una persona amica o a un partner amoroso. Mi verrebbe da dire che le regole che un tempo definivano i rapporti umani 'in tempo di pace' sembrano ora definire soprattutto i rapporti umani 'in tempo di guerra'.
            Un’altra norma di buona educazione, ormai totalmente scomparsa, prescriveva di non fissare le persone, di non guardare nessuno con insistenza; se poi qualcuno davanti a noi fosse incorso in qualche problema imbarazzante come inciampare, scivolare etc., si doveva offrire il proprio aiuto al malcapitato senza sottolineare in alcun modo l’accaduto e, soprattutto, senza ridere! Anche questa norma rientrava tra quelle che regolavano i rapporti sociali, un codice di rispetto cui ci si aspettava che più o meno tutti si attenessero – e chi non lo faceva si qualificava da solo come un maleducato, una persona socialmente incompetente.
            Un pallido ricordo, probabilmente del tutto inconsapevole, della giusta distanza sociale si ritrova oggi nell’uso della “linea gialla”, ovvero della “distanza di cortesia” richiesta nei luoghi pubblici: una linea di rispetto dello spazio privato altrui che demarca, appunto, il limite del comportamento cortese rispetto a quello scortese.
            Ma che cosa è la cortesia? Il Vocabolario della lingua italiana spiega che la cortesia è un “complesso di qualità, tra cui rispetto verso gli altri, benevolenza verso gli inferiori, liberalità, piacevolezza di conversazione, disdegno d’ogni viltà, difesa degli oppressi e della donna, che, nell’educazione cavalleresca del medioevo, costituivano una caratteristica dell’uomo di corte.”
            Un concetto analogo a quello di cortesia è quello di garbo: essere garbati, ovvero agire con garbo, significa mettere in atto un comportamento caratterizzato da “leggiadria, grazia, bella maniera nei movimenti, nel contegno e soprattutto nel trattare con le persone, quindi anche cortesia, compitezza”.
            Nell’orizzonte televisivo norme di comportamento di questo genere hanno subìto una netta distorsione, e decisamente in peggio. Per esempio, da alcuni anni tra i registi televisivi è invalso l’incivilissimo uso di indulgere con la telecamera sui particolari fisici e sui comportamenti non-verbali dell’ospite di turno. La telecamera si sofferma e fissa il malcapitato, obbligandolo al controllo dei segnali del proprio corpo al limite dell’immobilità.
            Ricordo di avere notato, in un dibattito televisivo nell’ottobre 2009 – si trattava della trasmissione 8 e mezzo condotta dalla giornalista Lilli Gruber – come l’allora segretario del Partito democratico Dario Franceschini, ospite in studio, fosse stato più volte ripreso dal regista mentre girava tra le mani il taccuino della trasmissione. Non appena Franceschini si rese conto che il regista soffermava a lungo l’inquadratura sulle sue mani, posò il taccuino e da quel momento in poi bloccò ogni proprio segnale corporeo. Scena analoga in una trasmissione di qualche tempo dopo, ospite questa volta Massimo D’Alema, che fin da subito mise in atto un controllo quasi granitico dei messaggi non-verbali del proprio corpo.
            Se pensiamo che nel regno animale la reazione di freezing (congelamento dell’azione) è una forma di difesa messa in atto dagli animali in situazioni di pericolo, l’annullare ogni segnale corporeo da parte di chi è inquadrato televisivamente sembrerebbe esprimere, da questo vertice di osservazione, una risposta istintiva alla dimensione di pericolo che il corpo percepisce in relazione all’uso intrusivo dello sguardo televisivo.
            Questo modo di descrivere e di costruire l’immagine televisiva agli occhi del telespettatore rappresenta senz’altro un superamento della giusta distanza - quindi, in prima battuta, una maleducazione - e, in secondo luogo, un’indebita invasione dello spazio privato, dunque, qualcosa di peggio della maleducazione. Con un termine forte potrei dire che vi si può ravvisare una forma di abuso del regista nei confronti dell’ospite; soltanto una delle due parti in causa, il regista, ha infatti il potere di soffermare lo sguardo televisivo sull’ospite, di fissarlo, mentre quest’ultimo ha un unico modo di proteggersi: oscurare le informazioni che quello sguardo evidenzia senza reciprocità e accordo tra le parti. Lo sguardo del regista si può poi considerare particolarmente abusante se si pensa che non si tratta di uno sguardo privato, in un rapporto uno-a-uno, ma che esso è “uno, nessuno e centomila” perché si amplia fino a inglobare in sé lo sguardo dei milioni di telespettatori. Questi ultimi sono autorizzati così a spiare il comportamento non-verbale dell’ospite, utilizzando in modo vicario lo sguardo del regista.
            Ma, come dice il proverbio, “non c'è rosa senza spine”: anche lo sguardo televisivo che regala identità, visibilità ed esistenza mediatica contiene in sé la propria ombra, i propri aspetti negativi. Più si diventa televisivamente visibili, più si è esposti, ad esempio, alla paura di perdere questa visibilità e il riconoscimento sociale che essa porta con sé.
            A proposito del timore di scomparire e dunque di non esistere più, vorrei raccontare un fatto di cui sono stata testimone diretta: è estate, il giornalista televisivo Tiberio Timperi entra in un bar. Indossa una maglietta sulla quale è stampato a grandi lettere: “Ah! ... è Tiberio Timperi!”. L’effetto su chi guarda è straniante: Timperi si fa riconoscere a forza, nel caso qualcuno non sappia o non ricordi chi sia.
            In termini psicoanalitici si potrebbe ipotizzare che da parte del giornalista ci sia stata la messa in atto (acting out) di una paura inconscia: una maglietta di self-recognition per evitare il pericolo del non-riconoscimento? Una maglietta apotropaica nei confronti del timore di non essere riconosciuto? Insomma, tradotto in parole: “mi devi riconoscere, che tu mi lo voglia o meno”?
            La televisione regala identità, ma genera anche il timore di sparire; a meno che essa non si appropri della propria stessa Ombra con ambigue operazioni ripescaggio mediatico, come nel programma Ricominciare, condotto da Alda D’Eusanio. A suo tempo il portale Rai pubblicizzava il format in questo modo: “Un grande viaggio nella memoria popolare, storie intense di personaggi famosi e gente comune che hanno lasciato una traccia indelebile nell’immaginario collettivo, persone arrivate alla ribalta del successo o della cronaca nera e poi, improvvisamente, dimenticate.
            In realtà, si trattava di un programma psicologicamente discutibile, seppure di un certo successo, il cui obiettivo consisteva nel ridare momentanea visibilità a coloro che erano tornati ad essere invisibili, con effetti decisamente ambigui sul telespettatore. Programmi di questo genere stimolano infatti nel pubblico una sorta di voyeurismo mediatico, al limite del sadismo, nei confronti di chi è tornato a essere un/una signore/a nessuno; sembra quasi di potere di sentire commenti del genere: “guarda come è diventato/a X. Y. , che fine ha fatto ... come si è ridotto ... etc.!”
            In termini di qualità della vita, la visibilità televisiva costa a chi sia diventato un personaggio mediatico anche un altro prezzo altissimo: quello della libertà. Essere visibili, essere riconosciuti sempre e comunque, significa infatti non passare più inosservati, essere prigionieri e ostaggio della propria stessa immagine.
            Della condanna alla perdita della libertà ne è doloroso testimone lo scrittore Roberto Saviano che, da quando ha ottenuto successo, visibilità e fama con il libro Gomorra, è obbligato a vivere nascosto e sotto scorta per sfuggire alla vendetta dei camorristi della famiglia dei Casalesi; anche se Saviano ha saputo trasformare la propria visibilità in arma mediatica di lotta alla violenza (seppure con il costante rischio della sovraesposizione).
            La civiltà dell’apparire contiene in sé anche un altro gravissimo limite. Essa è artefice di una realtà nella quale, come bene sottolinea Gandini nel suo film, l’80% della popolazione si informa su ciò che accade nel mondo unicamente attraverso la televisione: dunque una civiltà nella quale la stragrande maggioranza della popolazione non accede alla carta stampata o  ha scarsa familiarità con essa. Come è noto, una civiltà che ignori il valore della scrittura, che non abbia consuetudine con la parola scritta, che non sia in grado di fare quel salto di consapevolezza che la scrittura comporta, si priva dello strumento critico della lettura.
***
            Proviamo ora a raccontare la medesima storia della visibilità/invisibilità, quella dello sguardo che crea identità, dà esistenza e consistenza fisica, utilizzando il registro psicologico.
            Al momento attuale la nostra cultura sembra immersa in quello che nella psicologia evolutiva prende il nome - non a caso! - di “stadio dello sguardo”: la primissima fase della vita neonatale durante la quale, attraverso lo sguardo della madre e l’esperienza di contatto fisico con lei, il neonato sperimenta le prime forme relazionali tra sé e il non-sé, una traccia che si iscriverà nel corpo-mente dell’infante come prototipo delle successive esperienze interpersonali. Dal punto di vista psicologico, si potrebbe dire che la televisione sembra svolgere oggi il ruolo di “mamma sostitutiva” nei confronti dei bisogni più infantili dei telespettatori, il ruolo di figura di attaccamento primario, colei/colui che ci riconosce e che ci fa esistere: figura essenziale, della quale i tanti adulti-infanti che puntano tutto sulla visibilità televisiva cercano disperatamente lo sguardo, pena l’impossibilità di percepirsi come esistenti.
            Peccato, verrebbe da aggiungere, che in un sano sviluppo psichico la fase dello sguardo dovrebbe essere superata – e di fatto lo è - piuttosto velocemente, per dirigersi verso orizzonti psichici meno fusionali e più complessi. Altrimenti lo sviluppo della personalità rimane fissato alle fasi pre-orali dello psichismo, ottimo terreno di coltura delle forme psicopatologiche più severe (come è noto, nella fase pre-orale nascono e si sviluppano le modalità più patologiche del funzionamento psichico).
            Dunque la società dell’apparire, dell’essere riconosciuti televisivamente, se osservata dal vertice psicologico, ci porta direttamente nella nostra primissima infanzia, là dove lo sguardo materno che riconosce, lo sguardo che sostiene l’infante narcisisticamente, lo sguardo che fa esistere, forse non ha funzionato al meglio: come direbbe Felicity De Zulueta, si tratta forse di un bisogno di attaccamento andato a male?
            La necessità parossistica di riconoscimento richiesta alla televisione, quale derivato di quella figura di attaccamento, sembrerebbe testimoniare a favore di bisogni infantili irrisolti, rimessi in scena da coloro che più o meno consapevolmente hanno qualche conto in sospeso con la propria fase dello sguardo.
            Non è forse vero che il bambino piccolo che non sia stato visto né riconosciuto dai propri caregivers, pur di sfuggire alla disperante esperienza della propria non-esistenza, preferisca diventare “cattivo”, mettendo in atto comportamenti disfunzionali? A questo proposito mi viene in mente la storia di una paziente, molto sofferente per la mancanza di riconoscimento da parte dei genitori, che da piccola decise di urinare sul pianerottolo della propria casa nella speranza che i genitori si accorgessero di lei e del suo disagio. In realtà, il suo gesto non ebbe alcun effetto, confermando così i disperati vissuti di invisibilità e di inesistenza della bambina. Nella vita di quella bambina e della giovane donna che è diventata in seguito, la necessità di essere riconosciuta è rimasto un bisogno senza risposta.
            Se mi sono soffermata su questi aspetti della cultura dello sguardo, se ho voluto esplicitare alcune delle zone d’ombra, delle paure, delle violenze e delle ambiguità che la caratterizzano, l’ho fatto per rendere evidente quanto attraverso la televisione sia privilegiato soprattutto il rapporto della coscienza con le immagini esterne: un rapporto che la psicologia junghiana definirebbe di tipo estroverso, intendendo con ciò “il volgersi della libido verso l’esterno”. Per Jung infatti l’estroversione è: “[...] un movimento positivo dell’interesse soggettivo verso l’oggetto. Colui che si trova in uno stato di estroversione pensa, sente e agisce in relazione all’oggetto e ciò in una forma diretta e chiaramente percepibile all’esterno, così che non può sussistere alcun dubbio sul suo atteggiamento positivo nei riguardi dell’oggetto. L’estroversione è in un certo qual modo un trasferimento dell’interesse dal soggetto verso l’esterno, all’oggetto. [...] Nello stato di estroversione esiste una forte dipendenza, anche se non di carattere esclusivo, dall’oggetto.[...] Quando lo stato di estroversione è abituale, abbiamo il tipo estroverso” (VI, 438).
            Di segno opposto è invece l’atteggiamento introverso, quello che nel quale il soggetto privilegia il rapporto con le immagini interne: “[Nell’introversione] l’interesse non si muove verso l’oggetto, ma ripiega da esso sul soggetto. Chi è atteggiato nel senso dell’introversione pensa, sente e agisce in maniera tale da lasciare intendere chiaramente che la sua determinante principale è il soggetto, mentre all’oggetto compete tutt’al più un valore secondario.[...] Quando l’introversione è abituale, si parla di tipo introverso” (VI, 466).
            Ma che cosa sono le immagini interne? Da sempre gli psicologi del profondo, in generale, e gli psicologi analisti junghiani, in particolare, hanno rivolto la propria attenzione a questo genere di immagini, al ricchissimo mondo che la psiche inconscia produce e mette in scena senza sosta sul palcoscenico della mente. Spesso di questo mondo se ne ignora (o se ne svaluta) l’esistenza e la portata, a meno che le immagini interne non si impongano alla coscienza in modo del tutto autonomo, come avviene negli incubi, nelle ossessioni, nelle manie etc., ovvero in forme più piacevoli, come, ad esempio, nella passione amorosa, nell’intuizione artistica, nella creatività etc. Ancora oggi capita che, malgrado i fiumi di letteratura psicoanalitica e le più avanzate evidenze neuroscientifiche, la viva realtà del mondo interno venga messa in dubbio: eppure le immagini profonde svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione e nel mantenimento dell’equilibrio psicofisico personale e collettivo, nella realizzazione del sé e di Sé, della costruzione della personalità totale.
            A proposito della realtà delle immagini interne, vorrei raccontare un fatto.
            Nel settembre del 2009, durante la presentazione di un libro che aveva come oggetto il racconto di alcune esperienze deliranti dell’autrice, tra il pubblico ci fu chi chiese, in perfetta buonafede, se l’inconscio esistesse davvero e che cosa fosse un delirio.
            Oggi nessuno oserebbe più mettere in dubbio l’esistenza dell’inconscio né tanto meno la fondamentale unitarietà della mente e del corpo: Allan Schore sostiene, ad esempio, che il sistema interno all'emisfero destro rappresenterebbe il substrato biologico dell'inconscio dinamico di Freud mentre la nuova unità di osservazione è ormai da considerare a tutti gli effetti quella del 'cervello-mente-corpo'.
            Dal canto suo, uno dei presentatori rispose che il delirio rappresentava “una maglia aperta sull’infinito”, un modo per superare i rigidi confini delle abituali concettualizzazioni filosofiche. Se, da un certo punto di vista, quest’ultima affermazione può essere vera – non c’è dubbio che il delirio renda visibile l’autonomia della psiche inconscia e dunque sveli ciò che si situa oltre i (troppo rigidi o lassi) confini della coscienza - non si può negare che nel delirio il superamento della soglia cosciente avvenga in modo molto drammatico e pericoloso per l’Io, esponendo la personalità al concreto rischio di un non-ritorno psichico, ovvero di una psicosi.
            Sicuramente per superare gli schemi abituali della coscienza, in una forma che sia evolutiva e creativa per la personalità e non regressiva e distruttiva come nel delirio, esistono altre vie, meno traumatiche e rischiose: nella psicologia junghiana una di queste è rappresentata senz’altro dal metodo dell’immaginazione attiva.
            A proposito della differenza che intercorre tra un’esperienza psichica distruttiva e una creativa, Jung scrive: “Il processo creativo, per quanto possiamo seguirlo, consiste in un’animazione inconscia dell’archetipo, nel suo sviluppo e nella sua formazione fino alla realizzazione dell’opera compiuta. Il dare forma all’immagine primordiale è in certo modo tradurla nel linguaggio presente, ed è per mezzo di questa traduzione che ognuno può ritrovare l’accesso alle fonti più profonde della vita, accesso che fino a quel momento gli era stato interdetto. In questo sta l’importanza sociale dell’arte: essa lavora continuamente all’educazione dello spirito di ogni epoca, facendo affiorare le forme che più gli difettano. […] Colui che parla con immagini primordiali è come se parlasse con mille voci; egli afferra e domina, e al tempo stesso eleva, ciò che ha designato dallo stato di precarietà e di caducità alla sfera delle cose eterne; egli innalza il proprio destino personale a destino dell’umanità e al tempo stesso libera in noi tutte quelle forze soccorritrici che sempre hanno reso possibile all’umanità di sfuggire ad ogni pericolo e di sopravvivere persino alle notti più lunghe.” (X*, 353)
            Ciò che differenzia l’esperienza delirante da quella creativa è dunque la capacità del singolo di tradurre le immagini primordiali nel linguaggio presente. Sebbene il potere inconscio caratterizzi le produzioni sia distruttive che creative, soltanto nel secondo caso la coscienza è capace di dare al materiale archetipico una forma simbolica riconoscibile e valida per tutti, utilizzando uno strumento espressivo di altissima qualità formale quale, ad esempio, la scrittura. In questo senso, l’opera d’arte, “lavora continuamente all’educazione dello spirito di ogni epoca” e rappresenta, per il singolo e per la collettività, un processo di autoregolazione spirituale: “La vita è un criterio della verità dello spirito. Uno spirito che trascini l’uomo fuori delle sue possibilità vitali e cerchi solo l’adempimento di se stesso, è uno spirito erroneo, non senza colpa dell’uomo che ha in suo potere di concedersi o meno. Vita e spirito sono due potenze o due necessità, tra cui l’uomo è posto. Lo spirito dà alla vita umana un senso e la possibilità di esplicarsi. Ma la vita è indispensabile allo spirito, perché la sua verità è nulla, se essa non può vivere.”(VIII, 362).
            Di fronte all’impersonalità dell’esistenza e alla vita in trasparenza, mi sento di dire oggi, prendendo a prestito le parole di Jung dal suo Libro rosso: “Il mistero mi mostrò per immagini ciò che avrei poi dovuto vivere. Non possedevo alcuno dei benefici che esso mi mostrò, ma dovevo ancora acquisirli tutti” (p. 256).
***
(Le citazioni tratte dalle Opere di Jung, pubblicate in Italia da Bollati Boringhieri, sono seguite tra parentesi dall’indicazione del volume in numero romano e della pagina in numero arabo. Le citazioni da Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung, a cura di A. Jaffé, sono seguite fra parentesi dalla sigla RSR e dal numero di pagina).

lunedì 20 gennaio 2014

Il mito delle Isole Felici, Gilberto Mazzoleni e Marta Tibaldi, 1976, D'Anna Ed.

 

Casa Editrice: D'Anna, Messina-Firenze
Data di pubblicazione: 1976
ISBN: 8883211790
Pagine: 268
Euro: 13,45

Un panorama antologico delle relazioni di viaggio comprese tra la fine del '700 e l'inizio dell' '800, un periodo in cui l'Oceano Pacifico, il mare meno esplorato e più misterioso che ancora esistesse, diventa teatro di lotte di conquista e materia prima per le speculazioni europee sull'umanità "diversa". Le idilliache descrizioni dello stato di natura, che sembrano richiamarsi a certe versioni classiche dell'età dell'oro, diventano in realtà un polo alternativo mitico, che serve a fondare l'identità della civiltà occidentale. In esse è possibile rilevare, al di là dell'apparente apprezzamento dello stato di natura, la costante consapevolezza di una superiorità europea, determinata dal binomio oppositivo natura (=mancanza di tecnica e arte, ossia "selvaggio") e cultura (=civiltà tecnologica, ossia "europeo").

venerdì 17 gennaio 2014

Oltre il cancro, Marta Tibaldi, 2010, Moretti&Vitali Ed.









Casa editrice: Moretti&Vitali, Bergamo
pagine:130
dimensioni : 14,5x21
ISBN : 9788871864563
anno di pubblicazione : 2010
prezzo : 12,00
È possibile trasformare in modo creativo l’esperienza di una malattia difficile come il cancro, una malattia che evoca i nostri peggiori fantasmi e le nostre più intense paure?

La risposta può essere affermativa, se sapremo comprendere il significato profondo che la malattia oncologica contiene in sé, cogliendone anche il suo valore di risorsa individuale e sociale. Impiegando alcuni strumenti della psicologia analitica junghiana – analisi dei sogni, immaginazioni attive, scrittura autobiografica del profondo – l’Autrice illustra, anche attraverso la propria storia di malattia, come si possa avvicinare la dimensione inconscia del cancro, dando ascolto alla richiesta di trasformazione e di rinnovamento che essa porta con sé.


La costruzione di un rapporto attivo e consapevole con gli aspetti profondi della malattia oncologica dà forma alla possibilità pratica di partecipare ai processi di autocura presenti nella mente e nel corpo, facilita le spinte dell’organismo all’autoguarigione e il rinnovamento della personalità, trasformando così la propria esperienza di malattia in una risorsa per sé e per gli altri.


Due narrazioni paradigmatiche – la storia di Giacobbe che lotta con l’angelo e il mito di Filottète abbandonato sull’isola di Lemno – propongono poi una lettura simbolica del cancro, ipotizzando che la malattia oncologica e l’esperienza della ‘notte oscura del corpo’ siano l’espressione dello scontro/incontro tra aspetti personali e transpersonali della psiche, tra l’Io e il Sé, tra le richieste della materia vivente e la capacità umana di dare loro ascolto.


Le dieci schede che corredano la seconda parte del libro forniscono riflessioni pratiche sui vari aspetti del’iter oncologico, insieme a numerose indicazioni su come fare fronte ai disagi e alle difficoltà che la malattia procura. Da questo punto di vista, il libro, oltre a essere una riflessione sul senso profondo della malattia oncologica e sul suo valore di risorsa sociale, si propone anche come piccolo ‘manuale di sopravvivenza creativa’ alla malattia e alle sue cure – uno scritto pensato sia per i malati che per i sani, in una parola rivolto a tutti coloro che si vogliano confrontare in modo creativo con una patologia temibile come il cancro. I malati principianti sono stimolati a collocare la propria esperienza in un orizzonte più ampio di quello egoico, i secondi si possono esercitare in quella che l’Autrice definisce la “prevenzione psicologica al trauma del cancro”, ovvero l’esposizione graduale e tollerabile alla paura della malattia, la quale sviluppa competenza cognitiva ed emotiva nei suoi confronti e una più saggia e gioiosa consapevolezza dell’esistere.

Pratica dell'immaginazione attiva, Marta Tibaldi, 2011, La Lepre Edizioni

     
PRATICA DELL’IMMAGINAZIONE ATTIVA

Casa editrice: La Lepre Edizioni, Roma
Collana: I Saggi
ISBN: 978-88-96052-38-9
Pagine: 176
Data di pubblicazione: ottobre 2011
Euro: 18,00

Che cosa è il metodo dell’immaginazione attiva junghiana e, soprattutto, in che cosa consiste la sua pratica? 
La recente pubblicazione del Libro rosso di Carl Gustav Jung ha risvegliato l’interesse per questo metodo, che svolge un ruolo imprescindibile nel processo di realizzazione di sé che ciascun individuo, più o meno consapevolmente, persegue nel corso della propria esistenza. Strumento di conoscenza e di trasformazione dell’intera personalità, l’immaginazione attiva junghiana aiuta a recuperare e a stabilizzare il benessere psicofisico, ma anche a dare forma a potenzialità e risorse di cui non siamo consapevoli. 
Jung elaborò il metodo dell’immaginazione attiva in un periodo molto difficile della sua vita, dopo la rottura, personale e scientifica, del suo rapporto con Freud.
Il libro di Marta Tibaldi è un prezioso strumento per scoprire come confrontarsi in modo attivo, intenzionale e in stato di veglia con la psiche conscia e inconscia, lasciando che i diversi aspetti della personalità dialoghino tra loro e si integrino a vicenda.


La 心靈工坊文化公司 (PsyGarden Publishing Company) ha acquisito i diritti per pubblicare in Cina il libro "Pratica dell'immaginazione attiva" di Marta Tibaldi : Vai alla scheda editoriale del libro

Nel 2018 il libro è stato pubblicato tradotto anche in cinese semplificato da Beijing United Publishing Co., Ltd. : Vai alla scheda editoriale del libro